Lavoravo a stretto contatto con il management di un’azienda che conta quasi 70 dipendenti. Il settore non è rilevante in questo caso, ma è rilevante il motivo per cui avevano chiesto il mio intervento: la gestione delle risorse umane aveva delle falle preoccupanti. I responsabili sentivano serpeggiare il malumore e i settori iniziavano a subire un calo produttivo pericoloso.
L’azienda però era sana e dopo le dovute analisi, le riunioni preliminari e lo studio dei dati, era pronto un piano di efficientamento, che (caso più unico che raro) prevedeva pressoché solo interventi migliorativi per il personale, per la loro vita di tutti i giorni e le loro mansioni. Insomma: non erano previsti demansionamenti, spostamenti drastici o, peggio, riduzioni di personale. Al contrario: si sarabbe puntato sulla valorizzazione delle attitudini personali e avevamo studiato a lungo, insieme ai responsabili dei diversi team, le interazioni tra le persone, per creare un ambiente più favorevole, piacevole e sereno.
Tutto per il meglio: bisognava solo metterlo in atto e comunicarlo alle persone, insomma.
La nostra paura del peggio è più forte
del nostro desiderio del meglio
Elio Vittorini
Mai dare per scontata una reazione
Tra le persone più meritevoli di vivere un avanzamento di posizione, c’era sicuramente Luca, uno degli storici dipendenti del reparto produttivo. Sarebbe stato messo a capo di un nuovo team all’interno del suo reparto, fatto di forze nuove miste a persone già esperte.
Il responsabile di produzione convocò Luca appena arrivato, al mattino, invitandolo a prendere il caffè insieme. Voleva creare un’atmosfera informale, morbida e accogliente, per poter dare a quella bella notizia un aspetto ancora più positivo.
Il responsabile mi raccontò che nella sala ristoro non c’era nessuno, a quell’ora, e quindi la conversazione non poteva subire disturbi. Vide Luca leggermente teso, impaziente, quindi prima di arrivare al dunque aveva cercato di alleggerire l’atmosfera parlando di come avevano passato il week end e della qualità del caffè.
“Con Annalisa abbiamo analizzato il tuo ruolo molto a lungo”, disse alla fine “E abbiamo una bella notizia per te…”
Successe l’imprevedibile: in quel momento il cellulare del responsabile di produzione squillò con un’emergenza. Scusandosi con Luca, il responsabile gli chiese per favore di tornare ai suoi compiti, che l’avrebbe richiamato entro una mezz’ora.
Cosa successe in quella mezz’ora…
Luca tornò al suo reparto ed ebbe letteralmente una crisi isterica, inveendo anche contro i propri colleghi e chiedendo perché l’azienda volesse metterlo in difficoltà dopo tanti anni di servizio. Sapeva, a quanto diceva lui, che lo avrebbero costretto a spostarsi di sede e che questo era solo un modo per convincerlo ad andarsene al più presto perché la sua vita personale non gli permetteva di cambiare città.
Era certo di tutto questo.
Dove è avvenuto il corto ciruito di Luca?
Per fortuna, quando Luca ci ha dato la possibilità di spiegare cosa in realtà era nostra intenzione proporgli, la crisi è rientrata.
Ma cosa ha portato a una reazione così irrazionale? Cosa ha mandato in tilt il sistema?
L’analisi inizia dal particolare per arrivare al generale. E qui si passa dalla persona, al gruppo, all’ecosistema.
Come?
1) La persona, in questo caso l’efficientissimo Luca, ha una personalità specifica, come chiunque. Con punti di forza e punti di debolezza.
Prima di tutto, bisogna tenere presente che la sua intelligenza è dominata da una componente fortemente istintuale, quella più impulsiva delle tre, che vive in maniera binaria dentro all’uomo “o vinco o perdo”, che lo tiene costantemente sull’attenti e che lo porta a percepire il nuovo come minaccia e oggetto da eliminare.
Non è incline ai giri di parole e alle lunghe conversazioni: se lo tieni sulle spine, è (come tutti coloro dotati di questo tipo di intelligenza) portato a pensare che stai cercando di nascondergli qualcosa, di “fregarlo”. Vuole andare sempre dritto al sodo, avere poche informazioni molto dirette. Va da sé che essere portato in sala caffè e aspettare lunghissimi minuti prima di sapere cosa gli si voleva comunicare, non è stata una strategia vincente.
Oltre a questo, non si era preso bene in considerazione il fatto che Luca, come indicava la sua analisi del potenziale operativo, fosse terribilmente restio al cambiamento: questione spinosa, che avrebbe richiesto tempo per essere mitigata.
2) Il gruppo e, in questo caso, il modello di leadership a cui era abituato Luca sono le seconde componenti da analizzare.
Storicamente i leader della sua azienda erano portati al controllo maniacale diretto di ogni processo, ogni decisione, ogni cambiamento. Questo creava colli di bottiglia nelle comunicazioni, oltre a impedire l’evoluzione delle relazioni grazie alla fiducia e alla positività. Se il manager non “affida” nemmeno un frammento della sua azienda ai suoi sottoposti, come possono questi crescere nella fiducia e sentirsi depositari di fiducia loro stessi? Come possono instaurarsi rapporti più maturi e coinvolti, se il manager tenta di accentrare su di sé ogni responsabilità? In passato questo stile di management aveva portato a cambi non idonei, trasferimenti non desiderati, promozioni non meritate, e quindi Luca temeva di essere finito in uno dei vecchi magheggi.
3) La terza dinamica da analizzare è la cultura condivisa in azienda, che deve basarsi su uno scambio di comunicazioni trasparente e continuo, senza zone d’ombra e senza dare troppo adito a “voci di corridoio” e notizie ufficiose.
La creazione di un ecosistema basato sulla fiducia, sulla reciproca comprensione e sul coinvolgimento del personale nelle decisioni che lo riguardano, è fondamentale per evitare autoconvinzioni personali erronee.
In questa azienda si era data troppa poca importanza a questo basilare elemento, da troppo tempo regnava il regime del controllo e della diffidenza.
Dove c’è razionalità, non c’è paura
Dopo aver analizzato la situazione, compreso i punti critici e condiviso il tutto con il management aziendale (e dopo aver calmato Luca, che il giorno dopo ha portato pasticcini per tutti), si sono prese alcune decisioni di conseguenza.
1) Luca e la sua efficienza dovevano essere completate da una minore resistenza al cambiamento da parte sua. La sua paura del futuro doveva essere razionalizzata e riportata nei limiti per non apportare negatività e reticenze poco produttive nel sistema.
Con riunioni di allineamento programmate, si è cercato di coinvolgerlo più assiduamente (per quanto possibile e logico) nelle diverse fasi della trasformazione aziendale, per porre basi razionali laddove viveva l’irrazionale. Abbiamo sostituito la scatola nera che si era formata nella sua testa riguardo alla riorganizzazione con informazioni e scadenze.
2) La leadership doveva fidarsi di più della squadra. L’idea di accentrare le scelte, le responsabilità e la gestione nelle mani di pochi responsabili non solo non è efficiente e sostenibile per i responsabili stessi, ma porta a un ambiente privo di rapporti fiduciari. Si sono stabiliti dei sistemi di delega, controllati da processi standardizzati quanto più possibili per il quotidiano e da rapporti di condivisione delle responsabilità (e quindi fiducia) per gli eventi straordinari.
3) La cultura aziendale stessa doveva sul lungo termine inneggiare al cambiamento.
Comunicazione interna strategica, mission modificata con valori mirati, attività di team building e confronto continui: ecco alcuni degli strumenti utili per creare un’opinione condivisa e una cultura comune che smettesse di vedere i cambiamenti come minacce. Questo è un piano di lavoro di certo più articolato e di lungo periodo, ma che non poteva essere tralasciato se si voleva assicurare la crescita sana e organica di tutto il sistema.